Nato a Colorio nel 1789, dopo aver lavorato alla strada del Sempione fece fortuna a Parigi
Viaggio sulle tracce di uno dei più illustri e munifici ossolani
A Colorio, 1100 metri s.l.m., nel vecchio comune di Bognancodentro, alle pendici del monte Verosso, l’estate del 1789 fu caratterizzata da una bella novità; la nascita di un maschietto. E dopo quattro femmine, certo che doveva essere stata proprio una gran bella novità per il padre Giacomo fu Giovanni e la madre Domenica Giovangrande fu Lorenzo.
Era l’8 luglio: sei giorni dopo ci sarebbe stata la presa della Bastiglia. In un modestissimo casolare, vicino Pizzanco, nacque Giovanni Giacomo Galletti, poi meglio conosciuto come Gian Giacomo Galletti.
Una famiglia di contadini e pastori, che continuava la semplice vita rurale di quei tempi, ripetendo gli stessi sacrifici dei genitori e dei nonni, quasi una condanna la loro, oppure una liberazione.
Chissà? Tutto dipendeva da come si voleva guardare la vita. A Colorio, il bosco era tenuto sempre lontano dalle case.
Nei campi, ben esposti al sole, si coltivava grano, patate e segale.
L’acqua arrivava da una piccola sorgente, fresca e limpida e le poche case addossate l’una sull’altra, per dare più spazio ai terreni fertili sistemati a rive, venivano utilizzate per ricoverarci le bestie, il fieno, la paglia, la legna, i prodotti coltivati e per viverci.
Si viveva in modestissime abitazioni; la casera, dove c’era il camino per cucinare e lavorare il latte e di sopra i locali dove si andava a dormire, che nella maggior parte dei casi erano sottotetti, dove si metteva il fieno o spazi rustici sopra alle stalle per poter godere di quel naturale tepore rilasciato dalle vacche.
Qui visse Gian Giacomo Galletti, ma la sua vita a Colorio non durò molto.
Nei primissimi anni del 1800, Napoleone, utilizzando manovalanza locale, volle realizzare la strada delle alpi, attraversando il Passo del Sempione per agevolare il commercio in Europa e Gian Giacomo, appena dodicenne, rispondendo all’appello, si presentò, scavalcando le montagne dietro casa, con una buona dose di volontà
e muscoli in regola per dare aiuto agli operai. Resistette qualche mese e poi, a seguito forse di uno sventolone, probabilmente non meritato, da parte del suo padrone, si ribellò. Prese con sé la cassetta da merciaio ambulante e a soli 14 anni, passato il Sempione, si avventurò verso l’ignoto…
E’ da qui di lui non si sa più nulla fino a quando il suo nome compare sulla “Gazzetta di Milano” del 24 agosto 1826, quale proprietario con altri di una fabbrica di bigiotterie d’oro e d’argento con sede a Milano. A cinquant’anni decide di trasferirsi, con la giovane moglie, a Parigi dove va ad abitare in un lussuoso palazzo nel centro della città e nei suoi frequenti viaggi da e per Milano presenta documenti con scritto: “ Giovanni Giacomo Galletti, fu Giacomo, nato a Bognancodentro, professione: possidente”.
Come veramente si arricchì, nessuno lo disse e nessuno mai lo scrisse. Possiamo solo ipotizzare che diventò ricco lavorando e commerciando in pietre preziose.
La cosa certa è che fu gentiluomo, generoso e con un amore smisurato verso la sua terra nativa.
Si sposò con una certa Antonietta Piccioli molto più giovane di lui e che gli morì prematuramente.
Non ebbe figli e per questo, ma sicuramente non solo per questo, iniziò a distribuire in beneficenza tutta la sua ricchezza.
“V’ ha un modo - scrisse Gian Giacomo all’inizio delle tavole di Fondazione dell’Istituto Galletti - per cui l’uomo può vivere oltre la tomba, basta che esso indirizzi il pensiero e disponga degli averi per guisa che, lasciando codesta dimora mortale, crei qualche opera utile che lo ricordi.
Tale è il mio intento nel compiere nella pienezza delle mie facoltà mentali il presente atto di donazione.
Vedovo e senza figli, io ho provvisto già ai miei parenti meno prossimi, nipoti e pronipoti, nella misura che per me si credette opportuna e convenevole. Nulla di più naturale adunque che, soddisfatti questi impegni, la mia sollecitudine ora si diriga alla patria, alle care montagne che allegravano la mia giovinezza, al mio villaggio nativo, al quale porto, sebbene diviso da esso fin dall’età di anni quattordici, un grandissimo affetto. E perché questo mio sentimento non resti lettera morta, ma assuma forma concreta e virtù operativa, ho disposto ciò che segue:”