Un Ometto di pietra sulle montagne ha sempre tante storie da raccontare, Questo dell’Alpe Monscera ne ha almeno tre. La più antica arriva dal medioevo, da quel lontano e freddo autunno del 1275, quando i bognanchesi si prodigarono per aiutare il corteo di Papa Gregorio X ad attraversare prima la val Vaira e poi la valle Bognanco, nel suo lungo percorso di rientro dal Concilio Ecumenico di Lione a Roma. Il 27 ottobre il Papa era a Losanna, dove si incontrò con il re di Germania Rodolfo d’Asburgo.
E da Losanna attraverso il Vallese, arrivò a Briga e poi risalì il Sempione, ma nella discesa verso Milano, evitò saggiamente le gole di Gondo e scelse il più facile e comodo Passo del Monscera dopo aver attraversato la val Vaira che in quel tempo era ancora territorio di Bognanco. Il corteo papale era composto da qualche decina di prelati ed un centinaio di persone con cavalli, muli ed un picchetto armato. Il Papa quando passò per Bognanco, aveva 67 anni ed era Papa da quattro. Era nato a Piacenza nel 1208. Si chiamava Tebaldo Visconti ed era parente dei Visconti di Milano. Quando fu eletto al soglio pontificio, il 1 settembre 1271, era arcidiacono, ossia vicario del Vescovo di Liegi. E’ fatto quasi certo che in segno di gratitudine per l’aiuto ottenuto ad attraversare le Alpi, il pontefice donò alla popolazione di Bognanco la bolla “Transiturus” promulgata da Urbano IV nel 1264, con cui venne istituita la festa del Corpus Domini. Il Papa, comunque non arrivò mai in Vaticano, perché morì il 10 gennaio 1276 ad Arezzo, sulla strada per Roma.
La storia più efficace potrebbe essere raccontata dai contrabbandieri che passarono da quell’Ometto migliaia di volte e trovarono in questa sagoma rude e silenziosa certezze, sicurezza, conforto. Lo salutavano quando partivano per la Svizzera e lo rivedevano felici al loro rientro con sulle spalle le bricolle piene di merce da barattare con due soldi per mantenere la propria famiglia, i bambini… per sopravvivere.
Lo cercavano e lo scorgevano in inverno perché sormontava il manto nevoso e segnava la sua assicurante presenza. Era un riferimento importante, perché bisognava arrivare lì per poter vedere lontano e scrutare se c’erano pericoli a scendere in paese. Quando c’era vento forte era un riparo naturale e si stava volentieri accovacciati a guardare giù nella valle, mangiando un boccone in fretta con il fischio del vento sui due lati che ti faceva tremare le orecchie.
La terza storia, è quella più vicina a noi ed è quella che ha dato la forza di ricostruire questo piccolo e speciale monumento montanaro.
E’ l’estate del 1943, all’alpe Monscera con le vacche, c’è Teresa Scrimaglia con i suoi genitori. L’Italia è in guerra e prima di partire per il fronte, Mario Scrimaglia, ed Ernesto Darioli, rispettivamente fratello e moroso di Teresa, salgono all’Alpe per un saluto.
Nel tardo pomeriggio, quando è ora di andare, Teresa accompagna i due ragazzi fuori all’Ometto, dov’era abitudine fermarsi a parlare, a fare festa, a sognare. Seduti ai piedi di quel mucchio di sassi, i tre parlano della guerra che sta distruggendo e dividendo le loro vite; Mario e Ernesto sono chiamati alle armi, Teresa deve aiutare i suoi genitori alla vita di tutti i giorni. Il saluto è di quelli profondi e dignitosi, senza lacrime, con l’impegno di ritrovarsi ancora lì, finita la guerra, davanti a quello stesso Ometto. Dopo l’abbraccio e le ultime promesse, Mario e Ernesto se ne vanno. Teresa rimane in piedi appoggiata con la schiena contro i sassi ed osserva i due giovanotti che si allontanano. Adesso sì che può piangere. Ora si che può cedere alla debolezza, allo sconforto di essere rimasta sola. E liberamente piange e si svuota di tutto il suo dolore.
Passano i mesi e Teresa ogni giorno si reca davanti a quell’ometto per vedere se Mario e Ernesto ritornano dalla guerra. L’anno successivo Teresa è ancora all’Alpe Monscera e nei suoi momenti liberi riassesta l’ometto, aggiungendo altri sassi per farlo diventare ancora più grande affinché lo si possa vedere bene anche da lontano, ma di Mario ed Ernesto nemmeno l’ombra. Il padre Giuseppe più volte dice a Teresa, quasi a prepararla al peggio: “Eh… sappi che non tutti torneranno dalla guerra…”
Ma Teresa è fiduciosa e pensa che la guerra non durerà per sempre ed infatti arriva la liberazione e finisce anche l’inverno del 1945.
Il fratello Mario, purtroppo però è tra quelli che non ritornano a casa mentre Ernesto, con un po’ di fortuna, ce l’ha fa. Teresa ed Ernesto si riabbracciano davanti all’ometto e si ricompatta l’amore. Si sposano e crescono tre figli; Giuseppe, Felice e Adriano, veri pilastri della nostra storia.
Teresa, deceduta pochi anni fa, quando mancavano solo pochi giorni a festeggiare il suo centesimo compleanno, spesse volte raccontò ai suoi figli la storia di questo Ometto e sempre pregò loro ed in particolare Giuseppe di ricostruirlo. All’inizio sembrava una cosa inutile e senza senso, ma oggi che è ricostruito, è diventato una favola e questo Ometto è pronto a vivere altre storie che qualcuno dopo di noi potrà sicuramente raccontare.
Giancarlo Castellano, collaboratore di ECO RISVEGLIO