Oggi alla Corte Gianoli (1650 m.s.l.m.), non ci arriva e non ci passa più nessuno. Baite crollate, pascoli mangiati dalla vegetazione e sentieri abbandonati. Siamo sul versante nord del Pizzo Montalto (2705 m.s.l.m.), dove nell’estate del 1958, Clementin Casetti e sua figlia Carolina tenevano all’alpe una ventina di mucche. Ad aiutarli un ragazzino, Antonio Ferretti detto anche Nino, di appena 12 anni e Pin, un cane pastore fedele ed ubbidiente.
Il vecchio Casetti e sua figlia, entrambi storni come due campane, erano sempre affaccendati nella casera e quando arrivava mezzogiorno, stendevano un panno bianco sul tetto per avvisare che il pranzo era pronto.
Quel giorno di metà agosto, Antonio, visto il segnale, si avviò di corsa in direzione della casera, seguito dal fedelissimo Pin, ma il richiamo, non fu quello dell’ora di pranzo, bensì della notizia che Luigi, detto anche Gigi, il fratello di Antonio, era venuto su all’alpe per una visita. Gioia immensa comunque per il piccolo Nino, considerato anche che in quell’alpeggio sperduto, di rado ci passava qualcuno.
Gigi, in attesa che cuocesse la polenta, era andato a cogliere stelle alpine su un versante roccioso. Carolina diede un pezzo di pane e formaggio al piccolo Nino e lo invitò ad andare a chiamare suo fratello perché il pranzo era quasi pronto.
Arrivato sotto le rocce dove solitamente tutti andavano per stelle alpine, sentì delle urla levarsi nell’aria…«Nino! Ninooo!». Antonio, intuito che era successo qualcosa a suo fratello e stava chiedendo aiuto, si mise a correre in direzione delle grida e si fermò più volte ad urlare: «Gigiii, dove sei!».
Ed un eco si levò nell’aria: «Sono qui sotto le rocce…».
Arrivato sul punto, vide il fratello, di qualche anno più grande, a terra sanguinante in più punti. «Sono caduto e non riesco ad alzarmi. Aiutami!». Antonio si fece forza e cercò di sfilargli lo scarpone, della gamba più malmessa, gli strappò un lembo della camicia e l’annodò sotto il ginocchio, coprendogli la ferita più grossa e poi cercò, seppur era più pesante di lui, di trascinarlo giù afferrandolo per le gambe e sfruttando, prima un pendio erboso molto inclinato e dopo facendolo scivolare sui resti di una valanga.
Gigi urlava dal dolore, anche perché non era ferito solo alla gamba, il suo corpo cadendo, aveva rimbalzato più volte sui sassi.
Antonio, con immensa fatica, giunti sul sentiero, se lo caricò sulle spalle e lo portò alla casera.
Finalmente i Casetti si accorsero del problema e prestarono subito i primi soccorsi, ma Gigi era davvero messo male.
«Nino - disse Clementin - devi andare subito giù a Picciola a chiamare i miei figli Sandro e Pio che saranno lì a fare fieno». Antonio partì di corsa e quando arrivò a Picciola venne avvisato dalla moglie di Clementin che i due fratelli purtroppo, non erano più lì, erano andati fuori al Piano di Vagna. Non ci pensò due volte e riprese nuovamente a correre, attraversando Bognanco Fonti, ancora piena di turisti che non fecero caso a questo bambino che correva e dopo aver percorso tutta la strada provinciale, finalmente arrivò prima al muraccio e poi al pian da Vagna dove trovò i due fratelli e raccontò loro quanto era successo su all’alpe.
Immediatamente Sandro e Pio presero la moto, fecero spazio anche per il piccolo Antonio e si avviarono tutti e tre sulla strada della valle, fino alla curva di San Martino e da lì proseguirono a piedi verso ul Curt Gianol dove arrivarono nel tardo pomeriggio.
Verificato le gravi condizioni di Gigi, lo adagiarono saldamente su una robusta caula (solitamente usata per trasportare legna), ammorbidendogli la seduta con delle coperte e, dandosi il cambio più volte, raggiunsero nuovamente il fondo valle dove avevano lasciato la moto e da qui, trovarono il modo di portare Luigi all’ospedale di Domodossola.
Antonio rimase pensieroso su all’alpe a guardare la valle che si imbruniva sempre di più e mangiando senza fretta una scodella di polenta e latte, i suoi pensieri presero a mescolarsi fra tristezza e soddisfazione per aver vissuto, quel giorno, una situazione drammatica e nello stesso tempo anche esaltante, ma ancor di più, per aver contribuito a portare in salvo suo fratello.
La sera passò lenta. Clementin e Carolina, silenziosi come sempre, continuarono le loro faccende nella casera.
Il cane restò fermo a guardare la scena fino a che Antonio, stanchissimo, andò di sopra a coricarsi e prima di chiudere la porta del suo modesto dormitoio, diede un ultimo sguardo giù nella valle. Non vide niente, solo buio e silenzio.
Giancarlo Castellano, collaboratore di ECO RISVEGLIO